di Patrizia Monzeglio
Cinque candidature agli Oscar per “The Holdovers” sono un bel riconoscimento. Assolutamente
meritate per gli attori, forse più discutibili per film, sceneggiatura e montaggio, considerando i
concorrenti che hanno ottenuto la nomination 2024.
Le critiche più entusiastiche elogiano la capacità del fim di far ridere e piangere senza cadere nel
sentimentalismo, di rievocare le atmosfere e il cinema degli anni ‘70 pur toccando temi sempre
attuali, di far crescere la storia per trasformarla in un racconto di formazione. Tutto vero, sono
qualità apprezzabili ma se il racconto ha dei limiti è perché, per certi aspetti, difetta di originalità.
La pellicola ci parla di tre personaggi (un professore, uno studente e una cuoca di colore) costretti
a rimanere in un campus del New England durante le vacanze di Natale. Soli, chiusi in se stessi,
privati del calore di un ambiente famigliare, si trovano costretti a condividere esperienze che
minano a poco a poco le barriere da loro erette per proteggersi dalle sofferenze della vita. Il regista
Alexander Payne li accompagna nel faticoso cammino alternando dramma e commedia,
spigolosità caratteriali (talvolta un po’ troppo marcate) a momenti commoventi che mettono in luce
la fragilità della persona dietro alla maschera con cui i tre personaggi si presentano al mondo e
anche a loro stessi.
Il titolo inglese “The holdovers”, traducibile in “quelli che restano” ma anche in “residui”, fa
riferimento a persone che si sentono ai margini della società in cui vivono e si arrendono, persone
che lasciano scivolare la loro esistenza nella routine del ruolo che si sono ritagliati. Non importa se
sono individui segnati dal destino, se hanno subito un torto o se sono brillanti rappolli trascurati dai
loro ricchi genitori, l’inadeguatezza è un sentimento che non necessariamente corrisponde alla
realtà delle cose.
Le prove attoriali di Paul Giamatti e Da’Vine Joy Randolph meritano il Golden Globe già ottenuto e
le nomination al prestigioso Oscar, ma non da meno è l’interpretazione del giovane esordiente
Dominic Sessa che con il suo sguardo intenso e ribelle, le movenze dinoccolate allo stesso tempo
spavalde ed impacciate, ci fa amare l’insopportabile personaggio di Angus Tully.
Anche se il film non riserva particolari sorprese e fatica a reggere il confronto con gli altri candidati,
ci sentiamo comunque di dire che merita di essere visto perché è un fim tenero e toccante. Il
didascalico sottotitolo italiano “Lezioni di vita” poteva anche essere evitato. Lo tolleriamo soltanto
perché sottolinea quel che la vita e questa storia ci insegnano e cioè che c’è sempre la possibilità
di imparare dagli altri e di mettersi in gioco per cercare la propria strada o aiutare gli altri a trovarla.
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