di Patrizia Monzeglio
Noi che abbiamo amato Indiana Jones e l’abbiamo seguito in tutte le sue avventure, a partire da
quel lontano 1981 in cui uscì “I predatori dell’arca perduta”, siamo felici di aver avuto l’opportunità
di vedere il quinto e ultimo episodio della saga, firmato non più da Spielberg (che rimane
comunque produttore esecutivo insieme a Lucas) ma dal regista James Mangold, rivelatosi
all’altezza del suo compito.
A differenza di James Bond, interpretato da attori diversi che hanno dato vita a un personaggio di
volta in volta rivisitato, la figura di Indiana Jones è indissolubilmente legata a Harrison Ford. Non
era così scontato che l’attore potesse rivestire i panni del famoso archeologo a distanza di più di
quarant’anni, invece l’ha fatto e in “Indiana Jones e il quadrante del destino” ci ha restituito tutta la
fragile umanità dell’eroe invecchiato, provato dalle vicende della vita, un eroe superato dai tempi
(siamo nell’America dell’allunaggio, tutta proiettata verso il futuro) che però trova ancora la voglia e
l’energia di battersi per salvare il mondo da un destino funesto.
Il film ruota intorno alla metafora del “tempo”, che il regista mette al centro della storia giocando su
due piani: quello che riguarda il protagonista (giovane nelle prime scene ambientate nel 1945 e
ormai vecchio nel 1969) e quello legato al ‘quadrante del destino’, uno strumento in grado di aprire
dei varchi nel tempo per tornare al passato e riscrivere la Storia. A queste riflessioni sul tempo
offerte dalla sceneggiatura aggiungiamo la nostra, quella di spettatori che si trovano a loro volta
invecchiati insieme a Indiana Jones-Harrison Ford e si chiedono che cosa questo film rappresenti
per le nuove generazioni, cresciute con altri tipi di eroi e un linguaggio cinematografico molto
diverso.
Non che manchino le scene movimentate, gli inseguimenti, i dialoghi serrati, i colpi di scena. In
questo la pellicola non ha nulla a che invidiare ad altri film d’azione. Rimangono però in “Indiana
Jones” la delicata ironia e quel gusto ‘retro’ di certe ambientazioni che hanno fatto la fortuna della
saga e che oggi possono sembrare un po’ superati. Se lo sono o no non lo sappiamo, lasciamo
che a deciderlo sia il pubblico.
Noi possiamo solo dire che questo “Indiana Jones” è stato capace di farci divertirci ancora e
apprezziamo il coraggio dei produttori nell’investire su un prodotto da ‘boomers’, perché grazie a
loro abbiamo ritrovato sullo schermo un amico che non vedevamo da tanto tempo e che un po’ ci
mancava. Abbiamo gradito l’inserimento del personaggio di Helena Shaw, interpretato dalla
giovane attrice Phoebe Waller-Bridge, che con la sua spregiudicata avventatezza riesce a
trascinare il nostro eroe fuori dal torpore e dalla solitudine a cui era destinato dopo il
pensionamento e la separazione dalla sempre amata Marion. Abbiamo ritrovato ancora una volta
Karen Allen che interpreta una Marion dai capelli ingrigiti ed un inedito Antonio Banderas che
presta il suo volto segnato dal tempo a Renaldo, vecchio amico di Indiana Jones.
Senza star lì a farci tanti problemi su qualche incongruenza nella trama e qualche rimando di
troppo ai precedenti episodi, ci siamo goduti questo film d’avventura. Due ore di svago leggero con
la consolazione che ancora una volta sono i buoni a vincere, a scapito dei soliti cattivi in grado di
impossessarsi dello spazio altrui ma, per fortuna, non ancora del tempo.
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