di Maria Antonella Pratali

Dodicesima puntata – Sahò monelli, chiavi ribelli e il Teorema di Menabrea (Ponte Dogali)

Ci siamo lasciati al termine dell’undicesima puntata con un rebus da risolvere. Ricordate?(https://italiasara.it/2025/10/14/asmara-e-oltre-istruzioni-per-sorprendersi-11-23/). Ci stiamo “prendendo il caldo”.
Nel frattempo un gruppo di ragazzini, che poi scopriremo essere di etnia Sahò, ci raggiunge sghignazzando e facendoci il verso per i nostri disperati richiami a G. In un attimo ci circondano. Cercano di entrare in auto, chiudo le porte, le riaprono. I tentativi di allontanarli sono del tutto inutili, allora mi barrico dentro, a difesa del fortino. Sono circondata. Ho persino nostalgia dei babbuini invadenti incontrati prima di arrivare qui. S. mantiene un aplomb zen che in quel momento non mi rassicura affatto. Poi cedo: apro il finestrino di pochi centimetri per respirare, ma sembra un forno a convezione. Esco dall’auto, cerco rifugio sotto una delle piccole acacie, scarne e spinosissime: ombra dell’ombra. Il caldo mi morde i piedi e le caviglie, e sale. S. distrae i ragazzini proponendo selfie; funziona.
Dopo quella che mi sembra un’eternità, G. ricompare ansimante: “Come mai vi siete fermati?”. Io lo fulmino. Capisce al volo, le chiavi non le ha, si sente in colpa, prova ad allontanare i piccoli diavoli, che dopo un po’, minacciati, ridacchiando si dileguano. Ma il bagagliaio non si apre: né il mio coltellino svizzero né i tentativi di smontare il sedile posteriore funzionano. All’improvviso, come un miraggio, vedo passare un’auto. Mi sbraccio, urlo “help”, si ferma. In Eritrea è normale offrire aiuto. G. spiega la situazione, l’autista prova anche lui: nulla. Poi, quasi per scherzo, inserisce la sua chiave. Abbiamo una possibilità su un milione. Click! Il bagagliaio si apre e G. recupera le nostre chiavi. Grandi strette di mano, sorrisi e gratitudine. Allora gli angeli custodi esistono!
Ma il caldo ormai mi ha fatto saltare i nervi. Quando finalmente ripartiamo, con l’aria condizionata al massimo, G. si deve sorbire i miei rimbrotti. S. continua a guidare col sorriso di Buddha.
Dopo una mezz’oretta, arriviamo al famoso Ponte di Dogali, bell’esempio di architettura coloniale, costruito per facilitare la penetrazione dei soldati italiani in Etiopia. Il tentativo, che risale al 1887, andò fallito e lasciò sul campo cinquecento militi, come ricorda un monumento eretto su una collinetta poco distante. Il ponte è dedicato all’ingegnere e generale Menabrea (Presidente del Consiglio dal 1867 al 1869), perché costruito secondo il principio geometrico da lui enunciato (Teorema di Menabrea). Sulla volta è inciso a caratteri cubitali il motto in piemontese: “Ca custa lon ca custa” (“Costi quel che costi”), in riferimento alla determinazione italiana durante la colonizzazione. Nel corso della ristrutturazione, avvenuta nel 2006 con fondi giapponesi, una dima di ferro è stata inserita nelle alte volte del ponte, per impedire il passaggio ai mezzi che superano quell’altezza. Ciò si è reso necessario per evitare che qualche mezzo pesante fuori misura, rimanendo incastrato, danneggi la struttura del ponte. Ci fermiamo per guardarci intorno e per fare qualche foto. Il fiume è secco, il paesaggio è desertico, qualche sparuto dromedario vaga tra i cespugli polverosi.
Andiamo, Massaua e il Mar Rosso sono ormai vicini. Lo intuiamo dalle baracche tirate su alla bell’e meglio, sempre più fitte. E infatti, dopo qualche chilometro, ecco la città. Ne attraversiamo le strade principali, con poche auto, poche persone in giro, molto sole, e ce la lasciamo alle spalle, per dirigerci direttamente a Gurgussum, all’albergo prenotato sulla spiaggia.
(Continua. Nella prossima puntata: albergo sul mare a Gurgussum, il Mar Rosso, Massaua)