di Maria Antonella Pratali

Undicesima puntata.
13 maggio – Settimo giorno – Verso il Bassopiano e Massaua, con tappa intermedia a Ghinda (900 m s.l.m.) – Cronaca di un giorno bollente (in tutti i sensi)

La sveglia suona presto, molto presto. Il clima, laggiù, nulla avrà a che vedere con la temperatura gradevole dell’altopiano, quindi carichiamo bottiglie d’acqua, frutta e una buona dose di pazienza.
Il paesaggio cambia lentamente: i monti si fanno più dolci, mentre il caldo comincia a farsi strada come un ospite atteso, ma non invitato. I tornanti si susseguono senza tregua, e a poco a poco il panorama diventa più arido e più asciutto. Incrociamo molti camion in direzione opposta, carichi di ogni sorta di merce e segreti, quando, dietro a una curva, una brutta sorpresa: un TIR ribaltato. Il container è rotolato giù dal pendio, mentre la cabina giace su un fianco; ci fermiamo per capire se è necessario prestare aiuto, ma la scena è deserta, chi aveva bisogno è già stato portato in salvo.
Facciamo tappa a Ghinda (900 m s.l.m.), un piccolo centro musulmano, per far acclimatare i nostri corpi da altopiano a bassopiano. Mille sguardi curiosi ci seguono mentre ci avviciniamo a un bar sulla via principale. Ordiniamo “mai gas”, acqua frizzante che di frizzante ha solo il nome, e ci guardiamo intorno.
Un bambino ci osserva con due occhi enormi. Dal suo cestino tira fuori un portachiavi, un bracciale, un pacchetto di fazzoletti… tutto in silenzio. Lo invitiamo al tavolo e, mentre cammina, notiamo un serio problema alla schiena. G. parla con lui in tigrino, io e S. capiamo poco, ma poi traduce: frequenta la scuola, in quei giorni chiusa per una festa religiosa, e ama studiare. In autunno dovrà andare in Sudan per un delicato intervento alla schiena, grazie a un’équipe tedesca. Nel frattempo cerca di vendere il più possibile per aiutare la famiglia. In Eritrea, i bambini dopo la scuola fanno dei piccoli lavoretti, e lo fanno con orgoglio. Compriamo qualcosa da questo dolcissimo eroe, qualche oggetto che ci ricorderà i suoi occhi.
Riprendiamo la strada verso il bassopiano. Dopo Dongollo, il paesaggio è un quadro di sabbia e arbusti, con dromedari che brucano indifferenti radi ciuffi d’erba. Cespugli secchi e piccole acacie che, a dispetto di tutto, provano a ergersi verso il sole come regine del deserto. Il termometro danza attorno ai 40 gradi all’ombra (quale ombra?). Ci fermiamo per cambiarci d’abito e infilarci vestiti più adatti alle nuove temperature. G., rapidissimo, mette da parte i pantaloni lunghi, infila i pantaloncini e, con un entusiasmo che sfida il buon senso, si mette a correre come se fosse una lepre sotto il sole implacabile.
“Ma dove va?”, chiedo a S. strabuzzando gli occhi.
“Mi ha detto che fa una corsetta, ci aspetta più in là”. Finiamo di cambiarci e S. si mette alla guida.
Io: “Accendiamo l’aria condizionata, qui si bolle”.
S.: “Sì…ma dove sono le chiavi?”
Le cerchiamo ovunque, poi un lampo d’intuizione: G. se le sarà portate via. Proviamo a chiamarlo, abbiamo le SIM eritree. Il suo telefono è rimasto in macchina. Lo chiamiamo a squarciagola: niente, è già troppo lontano. Forse le ha lasciate nei pantaloni lunghi.
“Dove sono?”
“Nel bagagliaio”. Che si apre… solo con la chiave. Il caldo ci cuoce vivi. Il mio cervello comincia a traballare. Cerco l’ombra, impresa utopica.
“S., e adesso che si fa?”, chiedo sperando in un colpo di genio del mio amico.
La risposta è inesorabile: “Ci prendiamo il caldo”.
(Continua. Come risolviamo il problema? Incontri inaspettati, uno piacevole, l’altro meno)