Al Cinema per voi, ‘La zona di interesse’ pellicola da Oscar

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di Patrizia Monzeglio

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Del film “La zona di interesse” si è parlato tanto, un nuovo commento può quindi apparire
surperfluo in un mondo in cui tutto si brucia in fretta. Questo però è uno di quei film che rimane
dentro, che scava, che si lascia scoprire in profondità col passare dei giorni. Non è un oggetto di
consumo, è lo specchio in cui si riflette il lato buio del nostro essere umani.
Cos’ha di particolare questa pellicola che ha vinto l’Oscar 2024 come ‘Miglior film internazionale’ e
‘Miglior sonoro’, sorpassando altri titoli non meno meritevoli di un premio?
Uno degli aspetti più interessanti è l’aver scelto di affrontare un tema terribile come la Shoà
facendoci vedere il mondo capovolto, il punto di vista del carnefice invece invece di quello delle
vittime. Qui il carnefice non è l’esaltato e crudele nazista simbolo del male assoluto ma un
ambizioso esecutore di ordini che vuole eccellere nel compito che gli è stato affidato. Il dramma di
Auschwitz generato non tanto da un ideale ma dall’indifferenza di persone mediocri, cresciute
senza né arte né parte, prive di scrupoli e di empatia, che trovano nel nazismo l’ascensore sociale
per raggiungere il benessere che avevano sempre desiderato.
Noi spettatori assistiamo ai piccoli eventi della vita quotidiana di Rudolf Höss e sua moglie Hedwig
(una bravissima Sandra Hüller che già avevamo apprezzato in “Anatomia di una caduta”) sapendo
bene cosa sono quei suoni che provengono al di là del muro, conosciamo l’origine del fumo che
sale dal camino, rabbrividiamo alla vista della cenere usata come fertilizzante del giardino che i
coniugi Höss hanno realizzato intorno alla casa, sul terreno che circonda il campo di steminio e
definito a suo tempo “la zona di interesse”. Non c’è bisogno che la crudeltà e la violenza vengano
mostrate. È già stato tutto scritto e visto, in decine di film, in centinaia di libri.
Quello che il regista Jonathan Glazer mostra è la facilità con cui si può stare dalla parte del male
allontanandolo della vista, diventando la rotella di un ingranaggio più grande che si giustifica
dicendo di non essere il manovratore. Hannah Arendt aveva descritto questo meccanismo in “La
banalità del male”, parlando del processo Eichmann, Glazer propone oggi, con grande efficiacia, lo
stesso tema: «La mia idea alla base del film era ricordare a noi stessi che siamo in grado di
commettere ancora gli stessi orrori e potenzialmente seguire, passo dopo passo, quella stessa
abominevole strada».
Si può diventare così o si può scegliere di stare dalla parte di chi aiuta gli altri con piccoli gesti,
come la ragazzina che lascia di notte le mele là dove di giorno i prigionieri affamati potranno
trovarle recandosi al lavoro. Se la luce diurna illumina immagini perfette, definite e fredde, perché
quello è il mondo del male, il distacco dalle emozioni, la telecamera termica riprende in notturna il
calore della bontà che è l’altra parte di noi che possiamo e dobbiamo coltivare. Per questo il
regista ha dedicato l’Oscar a Aleksandra Kołodziejczyk, a cui è ispirata la figura della ragazzina
«Alla sua memoria, alla sua resistenza dedico questo premio…la ragazza che brilla nel fim come
nella vita».

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