di Maria Antonella Pratali

È nelle sale in questi giorni l’ultimo e attesissimo film di Guillermo del Toro, “Frankenstein”, presentato lo scorso settembre all’82^ Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

Perché riproporre il mito del mostro creato da Mary Shelley e messo in scena per la prima volta da James Whale nel 1931 con il volto di Boris Karloff? (https://italiasara.it/2025/06/25/cinemitalia-approfondimento-mary-shelley-un-amore-immortale-e-la-nascita-di-frankenstein/).
Fin da ragazzino il regista messicano era affascinato dalla storia di Frankenstein e da decenni sognava di darne la sua versione, frenato tuttavia dalla reticenza delle major, che ritenevano il budget troppo alto. Finché non è arrivata Netflix, che ha messo a disposizione del regista ben 120 milioni di dollari.
Le ingenti risorse gli hanno permesso di realizzare un lungometraggio di circa due ore e mezza infarcito di effetti speciali (spesso troppi e troppo speciali), dotato di scenografie mirabolanti, costumi esteticamente di grande impatto e fotografia eccellente, che alterna e coniuga tra loro il bianco accecante dei ghiacci al rosso del sangue e del vestito della madre, il grigio giallognolo della Creatura (Jacob Elordi) ai verdi squillanti e alle tonalità di blu e azzurro dei vestiti di Elizabeth (Mia Goth). Il film è visivamente straordinario.
Solo il grande schermo riesce a riprodurre e a esaltare tutte queste caratteristiche, ma saremo curiosi di vedere come e quanto ciò sarà possibile su schermi casalinghi, visto che presto il film sarà a disposizione sulla piattaforma Netflix.
Che cosa significa essere umani, essere esclusi, creatori e insieme creature?
Per del Toro il mostro è una creatura che mostra le cicatrici del corpo a richiamare le ferite del suo animo. Desiderio dell’altro, di essere amato, ed essere continuamente rifiutato e respinto. Desiderio di riconoscimento, amore per il padre-creatore, che invece lo disprezza e lo allontana. Dolore dell’abbandono, solitudine glaciale. Ne consegue che il focus si sposta dal puro orrore al dramma interiore, rendendo umana la creatura e mostruoso il creatore o la società.
Relazioni, identità, sentimenti: questo è il vero nocciolo, che talvolta rischia di essere perso di vista nelle frequenti scene di battaglia, ammazzamenti e generosi spargimenti di sangue.
Dopo “Il labirinto del fauno”(2006) e “La forma dell’acqua”(2017), del Toro rilancia il mito del mostro come specchio della nostra epoca disumana, in cui, secondo il regista, “i veri mostri sono in giacca e cravatta”.

 
                                             
                                             
                                             
                                             
                                             
                                             
                                             
            

 
         
         
         
         
         
         
         
         
                                 
                                 
                                 
                                 
                                 
                                 
                             
                             
                             
                             
                                     
                                     
                                     
                                     
                                    